The Wanderer (1885)

The Wanderer (1885)
Alla fine dell’800 in Gran Bretagna esisteva un tiro a due cavalli chiamato The Wanderer (il vagabondo, il viandante). Il dottor William Gordon Stables, un medico di origini scozzesi, commissionò la costruzione di questo veicolo ritenendo la vita itinerante all’aria aperta benefica per la salute. Su questi affascinanti veicoli da quel giorno iniziarono a viaggiare altri "gentlemen-gipsies" (gentiluomini zingari come vennero definiti a quei tempi), che diedero il via alle prime esplorazioni "plenair" grazie al loro spirito di avventura. Un sogno anche per noi che abitiamo in un mondo (oggi come ieri) limitato da fili spinati e confini, e afflitto da una burocrazia soffocante. Il mio blog e i libri che ho scritto sono dedicati a quegli uomini. Un inno di libertà, a favore dell’utopica libera circolazione degli esseri umani su questo meraviglioso pianeta.

26 settembre 2010

Introduzione

The Wanderer (1885)

          Alla fine dell’800 in Gran Bretagna esisteva un tiro a due cavalli chiamato The Wanderer (Il vagabondo), considerato a buon ragione il precursore dei veicoli ricreazionali, gli attuali caravan e autocaravan.
          Il dottor William Gordon Stables, un medico di origini scozzesi, commissionò la costruzione di questo veicolo ritenendo la vita itinerante all’aria aperta benefica per la salute e nel 1885 ricoprì gli oltre duemila chilometri che lo separavano dalla sua casa di Twyford nel Berkshire dalla città di Inverness in Scozia.
          A bordo di questi affascinanti veicoli iniziarono a viaggiare i cosiddetti “gentlemen-gypsies”, gentiluomini zingari, effettuando con spirito di avventura le prime esplorazioni “plein air”. Un sogno anche per noi che abitiamo in un mondo (oggi come ieri) costellato da fili spinati, frontiere e burocrazia spesso soffocante.
          Questo racconto vuole essere dedicato a quegli uomini come personale contributo, come un inno di libertà, all’ancora quasi utopica libera circolazione degli esseri umani su questo nostro meraviglioso pianeta.
      L’affascinante vita delle popolazioni nomadi del passato e del presente (poche, ma ne esistono ancora) è stata studiata e ammirata da poeti e scrittori tra i quali Bruce Chatwin, esperto d’arte e archeologo, giornalista, fotografo, esploratore e narratore.
      Il famoso scrittore britannico autore di In Patagonia e Le vie dei canti, scrisse un libro dal titolo Anatomia dell’irrequietezza, rivelatore ancor più di altri libri di ciò che era la sua “inquietudine di uccello migratore, devoto per istinto all’alternativa nomade”, quasi da proporre il nomadismo come alternativa alla cosiddetta civiltà.
          Chatwin sosteneva che il nomade rinuncia, medita in solitudine, abbandona i rituali collettivi e non si cura dei procedimenti razionali dell’istruzione o della cultura. E’ un uomo di fede.
          Personalmente riteniamo che la fede è spesso sinonimo di religione oltre che di spiritualità, e in quanto agnostici preferiamo immaginare che il nomade sia un essere in possesso di una propria dimensione spirituale più che religiosa. Dobbiamo tuttavia ammettere che l’andar contro corrente forse richiede comunque una buona dose di ideali e quindi anche di “fede”.
          Le difficoltà burocratiche, l’antico negativo retaggio legato agli zingari (e qualche volta anche giustificato), le spesso inconsapevoli invidie provate dai molti sedentari-schiavi, fanno si che il nomade venga percepito sottilmente destabilizzante per la società e per la sua economia, così legata al lavoro fisso (oggi poi non così sicuro) e alla manodopera che la sostiene. Il viaggio di lungo periodo in questo contesto è diventato un’esperienza rara e difficile da scegliere. I prezzi da pagare, più che economici, sono professionali, familiari, sociali, burocratici e non invogliano certo chi fantastica sulla possibilità di vagabondare per il mondo. Solo una piccola percentuale di persone fa questa scelta, pronta a pagarne il prezzo.
          Le difficoltà iniziali ci sono, e sono molte. Le prime sono culturali, interiori e personali poiché quasi la maggioranza di noi ormai nasce in una famiglia stanziale. La vita itinerante spesso comporta, per i meno abbienti, la rinuncia a un lavoro più o meno fisso e sicuro, all’essere esposti ad una maggiore instabilità economica, a vendere o, nella migliore delle ipotesi, ad affittare la propria casa, se si ha la fortuna di possederne una.
      Altri elementi culturali molto forti da affrontare sono il distacco (spesso vissuto come abbandono) dai propri familiari, spesso pronti a far scattare i ricatti affettivi di rito, unitamente alle preoccupazioni esternate verso il protagonista di una scelta così insolita percepita come alquanto pericolosa.
          Lasciando agli addetti del settore la trattazione psicologica di questi interessanti temi sui quali esiste una copiosa letteratura in proposito, continueremo con il racconto della nostra esperienza personale con l’intento di condividere le avventure, le gioie e i dolori di una scelta poco comune ma comunque lecita e onesta negli intenti e negli ideali che la sostengono.

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